La VI sezione civile della Cassazione torna sul tema della protezione internazionale per orientamento sessuale

di Matteo Winkler

1. La sentenza della Corte di Cassazione n. 11586 del 10.07.2012 rappresenta
l'occasione per fare il punto sul tema della protezione internazionale per
orientamento sessuale, cioé la concessione dello stato di rifugiato, in Italia,
a favore di stranieri perseguitati nel loro paese d'origine a motivo della loro
omosessualità.

Il tema è stato oggetto nel 2011 di un'interessante ricerca, intitolata
«Fleeing Homophobia», condotta da alcune associazioni che si occupano di
diritti delle persone LGBT, tra le quali l'italiana Avvocatura per i diritti
LGBT - Rete Lenford (v. Jansen, Spijkerboer, Fleeing Homophobia. In fuga
dall'omofobia: domande di protezione internazionale per orientamento sessuale e
identità di genere in Europa, 2011). La ricerca ha messo in luce alcuni aspetti
della questione affrontata dalla Cassazione: può uno straniero trovare
protezione in quanto omosessuale? Quali sono le condizioni alle quali
l'interessato può accedere a tale protezione, specialmente in termini di
credibilità e onere della prova?

Di questi due quesiti si occupa tangenzialmente la pronuncia citata.



2. I fatti di causa si possono così riassumere.

Alla fine del 2007 un cittadino tunisino immigrato in Italia riceve un ordine
di espulsione da parte del Prefetto di Trieste, perché ritenuto persona
socialmente pericolosa. Impugnato il decreto, il ricorrente vince in Tribunale
(sent. 22-28.02.2008, ined.) perché l'art. 19.1 T.U. immigr. (D.Lgs.
25.07.1998, n. 286) vieta l'espulsione dello straniero «verso uno Stato in cui
lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per [...] ragioni personali o
sociali», e lui si dichiara omosessuale e cristiano, doppia ragione di
persecuzione del suo Paese. L'art. 230 del codice penale tunisino, infatti,
punisce la «sodomie» con tre anni di carcere e la conversione a una fede
diversa dall'Islam, religione di Stato, è di fatto condannata.

La pronuncia di accoglimento interviene all'esito di un'istruttoria volta ad
accertare l'omosessualità del ricorrente. Il giudice acquisisce testimonianze
di connazionali amici del ricorrente stesso e di una psicologa che l'aveva
seguito in carcere; inoltre, viene acquisito agli atti un fascicolo penale a
carico del ricorrente, dal quale si evinceva che il reato ivi contestato era
stato commesso in occasione di un incontro con persona dello stesso sesso,
finalizzato alla consumazione di un rapporto sessuale.

Alla luce di questi elementi, il giudice ritiene provata l'omosessualità del
ricorrente che, in quanto condizione personale di tutela alla luce dei principi
costituzionali del nostro Paese rappresenta motivo di protezione internazionale
ai sensi del citato art. 19, co. 1, T.u. immigr. Sulla sentenza si formava
giudicato, non essendo stata promossa impugnazione.

Nondimeno, la domanda di protezione internazionale avanzata dallo stesso
tunisino dinanzi alla Commissione territoriale di Gorizia non trovava
accoglimento, avendo la Commissione ritenuto non dimostrata né la sua
omosessualità né l'avvenuta conversione al cristianesimo. Successivamente, il
Tribunale di Trieste rigettava l'impugnazione proposta dal ricorrente, a motivo
dei suoi precedenti penali, ma accoglieva la domanda subordinata presentata
dallo stesso in relazione alla persecuzione in quanto gay e cristiano,
autorizzando così il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Con sentenza del 12.04-9.05.2011, la Corte d'appello di Trieste riformava
completamente la sentenza di primo grado, considerando di nuovo non provata
l'asserita omosessualità e l'adesione al cristianesimo.

La Cassazione ora annulla con rinvio la pronuncia della Corte d'appello,
affermando che la sentenza del Tribunale di Trieste del 2008, la quale ha
accertato «il diritto del ricorrente a non essere espulso dal territorio
nazionale», ha ormai assorbito ogni altra questione, essendosi formato il
giudicato sull'esistenza di ragioni ostative dell'espulsione, con conseguente
diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.



3. La prima questione degna di interesse è come l'omosessualità può costituire
una causa di persecuzione ai fini della protezione internazionale.

Essa non è infatti indicata nel ricordato art. 19.1 T.U. immigr. Nondimeno, si
tratta di una «catch-all provision», contenente un elenco che deve essere
interpretato in maniera dinamica, alla luce dell'evoluzione della società, e
che quindi non può essere inteso come esaustivo. In particolare,
nell'espressione «ragioni personali o sociali» può indubbiamente essere
inserita la condizione di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. In almeno
76 Paesi del mondo l'omosessualità è punita con pene severe, in 7 con la pena
di morte.

La criminalizzazione dei rapporti tra persone dello stesso sesso è certamente
una manifestazione del fatto che, in quello Stato, le persone omosessuali sono
oggetto di persecuzione. Non occorre che le norme in parola siano
effettivamente applicate oppure no: è sufficiente che esse siano semplicemente
suscettibili di applicazione.

Difatti, come chiarisce l'Agenzia dell'ONU per i rifugiati in tema di
valutazione delle domande di protezione avanzate da persone omosessuali e
transessuali, «una legge può essere persecutoria di per sé quando riflette
norme sociali o culturali irrispettose dello standard internazionale dei
diritti umani» (UNHCR, Guidance Note on Refugee Claims relating to Sexual
Orientation and Gender Identity, Ginevra, 21 novembre 2008). Il concetto di
«persecuzione», quindi, anche per quanto riguarda la nostra legge interna, deve
rifarsi non (sol)tanto all'effettiva esecuzione di misure sproporzionate o
arbitrarie rispetto al delitto considerato, ma anche e soprattutto alla
presenza di pregiudizi normativamente sanzionati (c.d. «omo/transfobia
istituzionale», sulla quale v. Lingiardi, Citizen Gay. Famiglie, diritti negati
e salute mentale, Milano, 2007, 46).

Tale approccio è inoltre conforme al dato normativo attuale. Infatti, la
Direttiva del 13-12-2011, n. 95/2011/UE (che sostituisce la precedente
Direttiva del 29-4-2004, n. 2004/83, attuata in Italia con D.Lgs. 19-11-2007,
n. 251), dopo aver chiarito che «[p]er la definizione di un determinato gruppo
sociale, occorre tenere debito conto [...] l'identità di genere e
l'orientamento sessuale, che possono essere legati a determinate tradizioni
giuridiche e consuetudini» (cons. 30), stabilisce che «[i]n funzione delle
circostanze nel paese d'origine, un particolare gruppo sociale può includere un
gruppo fondato sulla caratteristica comune dell'orientamento sessuale».

Al riguardo, per quanto qui interessa deve ritenersi nettamente superata, sui
piani sia normativo sia giurisprudenziale, la pronuncia della Cassazione del
14.04.2007, n. 16417 (in Dir. fam., 2008, 55, nota Negro; in Guida dir., 2007,
34, 49; in Nuova giur. civ. comm., 2008, 271, nota Pizzorno), che aveva
distinto tra norme penali che incriminano «l'ostentazione delle pratiche
omosessuali non conformi al sentimento religioso pubblico» da un lato, e norme
penali che puniscono l'omosessualità in quanto tale dall'altro, rilevando la
possibilità di assicurare protezione solo nel secondo caso.

Si fa oggi giustizia di questa distinzione inconsistente. Anzitutto, non
esiste una legge che punisce l'essere omosessuali di per sé. Esistono invece
norme incriminatrici di condotte sessuali derivanti dal fatto di essere
omosessuali, le quali incidono direttamente sull'esercizio di un diritto
individuale, precisamente quello al rispetto della vita privata, ponendo le
persone di fronte a un bivio: «[o] rispettano la legge e si astengono dal dare
corso, anche in privato e con adulti consenzienti, ad atti sessuali proibiti
verso i quali esse sono disposte in ragione delle loro tendenze [sic]
omosessuali, ovvero commettono tali atti e diventano così passibili di sanzione
penale» (Corte eur. dir. um., 22.10.1981, Dudgeon c. Regno Unito, in Foro it.,
1982, 177, § 41).

Inoltre, è evidente che «quando la condotta omosessuale viene sanzionata
penalmente, questa dichiarazione di per se stessa è un invito ad assoggettare
le persone omosessuali a discriminazione sia nell'ambito pubblico sia in quello
privato» (Corte suprema USA, Lawrence v. Texas, 539 U.S. 558, 575). Per queste
ragioni, trattandosi di leggi i cui effetti «collaterali» vanno ben al di là
della semplice condotta, la distinzione adombrata in passato dalla Cassazione
non ha ragion d'essere e deve considerarsi oggi completamente superata. Ciò è
del resto in linea con la giurisprudenza maggioritaria delle commissioni
territoriali, per la quale la criminalizzazione è qualificata già di per sé
come una limitazione all'esercizio di un diritto umano, e dunque come
persecuzione.



4. La seconda questione che qui interessa approfondire è data dalla
valutazione della credibilità del richiedente protezione internazionale. Come
si dimostra di essere omosessuali? Il quesito è tutt'altro che irrilevante
(cfr. Jansen, Spijkerboer, Op. cit., 49-66), dal momento che l'orientamento
sessuale è una caratteristica invisibile o comunque suscettibile di essere
tenuta nascosta. Essa potrebbe pertanto essere usata per ottenere una
protezione in realtà ingiustificata.

A tale proposito, nella già citata pronuncia n. 16417/2007 la Cassazione aveva
precisato che «occorre dare la dimostrazione di una omosessualità dichiarata,
la quale pure potrebbe provarsi con il ricorso alla prova orale». Questa
statuizione concede agli organi preposti - vale a dire ai giudici, ma anche
alle commissioni territoriali - una discrezionalità pressoché totale in
relazione a elementi che in realtà esprimono a loro volta stereotipi diffusi
sulle persone omosessuali.

Si pensi al fatto che un ricorrente risulti sposato con una persona di sesso
diverso o abbia figli nel Paese d'origine, elemento tutt'altro che indicativo
dell'eterosessualità del richiedente rifugio (così UNHCR, Guidance Note, cit.,
§ 36). Al riguardo, basti osservare che il problema non ruota solo attorno al
ricorrente, ma coinvolge soprattutto il giudicante, organo tutt'altro che
scevro da sentimenti negativi inconsci (c.d. «aversive prejudice»), in primo
luogo la paura di un flusso eccessivo di stranieri, o di immigrati omosessuali,
come dimostra l'uso recente del test fallometrico in certi Paesi europei
(reazioni fisiche a immagini pornografiche).

Se i giudici, in quanto esseri umani, soffrono di tale condizione, ciò vale
ancor di più per le commissioni territoriali, oberate di lavoro (40 persone
sull'intero territorio nazionale sono chiamate ad affrontare 31.000 domande di
asilo, dati del 2009 alla mano!) e spesso poco propense a valutare a fondo la
«storia» personale del richiedente. Anzi, il giudice americano Richard A.
Posner ci ricorda che i giudici dell'immigrazione sono «arbitrari, irrazionali,
pieni di contraddizioni e disinformati» (v. Cox, Deference, Delegation and
Immigration Law, in 74 Univ. Chicago Law Rev., 2007, 1671, 1679).

Qui, allora, più che un problema di diritto, si pone un problema di traduzione
di esperienze sul piano cognitivo, che richiede indubbiamente un'approfondita
preparazione degli uffici preposti, anche attraverso adeguati corsi di
formazione (come del resto raccomanda la stessa UNHCR, Guidande Note, cit., §
37).

In un certo senso, la semplice esistenza di norme incriminatrici di rapporti
tra persone dello stesso sesso nello Stato d'origine dovrebbe rappresentare un
correttivo a questa situazione, ma essa può non valere in tutti i casi, ad
esempio se le leggi in questione sono state abrogate e nondimeno perdura una
situazione di violenza diffusa nei confronti di gay e lesbiche, oppure se si
sono verificati episodi di discriminazione. La preparazione dell'organo
giudicante, sia esso amministrativo o giudiziario, è quindi a maggior ragione
essenziale.



5. A restare del tutto fuori dal caso è l'altra questione, anch'essa
interessante, della discrezione delle persone nel vivere la loro omosessualità.
L'argomento principe usato a tal riguardo è che gay e lesbiche potrebbero
agevolmente sottrarsi alla persecuzione negando la loro omosessualità ed
adeguandosi a comportamenti tipicamente eterosessuali (atteggiamento denominato
in letteratura «passing» o «disidentificazione», sul quale v. per tutti
Yoshino, Covering. The Hidden Assault On Our Civil Rights, New York, 2006, 49-
73).

Non è questa la sede per entrare nel dettaglio del diritto al coming out (per
una trattazione completa v. la nostra nota in Corr. giur., 2011, 1375). Appare
qui tuttavia sufficiente evidenziare che la questione non è se si possa o meno
celare il proprio orientamento sessuale, bensì perché si dovrebbe imporre a
qualcuno di farlo. Vista da questa angolatura, la disciplina della protezione
internazionale rappresenta lo strumento attraverso il quale si riconosce alle
persone di vivere liberamente il proprio orientamento sessuale senza temere di
patire un danno in virtù di una loro caratteristica personale. Del resto, in
questo ambito la protezione non esprime solo una necessità di giustizia, ma
rivela altresì un'esigenza di uguaglianza, perché ciò che si chiede per
l'orientamento sessuale, a ben riflettere, non lo si chiede per altre
caratteristiche come le opinioni politiche e la religione, che sono sì
modificabili da parte dell'interessato, ma vengono nondimeno tutelate in modo
pieno.



6. Degna di nota nella sentenza in commento è, infine, l'astratta unificazione
dei procedimenti riguardanti immigrati omosessuali. Troviamo anzitutto il
procedimento (amministrativo) di espulsione, il quale può dar luogo a
un'opposizione da parte dell'intimato in virtù del ricordato art. 19.1 T.U.
immigr., che vieta l'espulsione (o il respingimento alla frontiera) per ragioni
di persecuzione; in secondo luogo abbiamo il procedimento (penale) per
permanenza illegale nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine di
espulsione (art. 14.5-ter T.U. immigr.); infine, vi è il procedimento
(amministrativo) di protezione internazionale, che coinvolge le commissioni
territoriali ed eventualmente l'autorità giudiziaria (D.Lgs. 28-01-2008, n.
25).

Nella sentenza in epigrafe i tre procedimenti, diversi per natura e finalità,
si uniscono in un'unica considerazione: la prevalenza, nei confronti degli
altri, del giudicato rilasciato in uno di essi. Ove venga accertato in via
definitiva che un immigrato è meritevole di protezione o non suscettibile di
espulsione perché omosessuale, gli organi dello Stato sembrano doversi piegare
a tale determinazione.

In ciò forse risiede l'autentica novità di questa pronuncia: la riscoperta di
una rinnovata armonia dell'ordinamento nello spirito della protezione
internazionale degli stranieri che soffrono persecuzioni e discriminazioni in
ragione del loro orientamento sessuale nel loro Paese, e sperano di trovare un
rifugio sicuro nel nostro.

Fonte: http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-societa/-/-/1657-
la_vi_sezione_civile_della_cassazione_torna_sul_tema_della_protezione_internazionale_per_orientamento_sessuale/

Pubblicato da Lorenzo Bernini